giovedì 20 maggio 2021

BELLO O BRUTTO CHE SIA... E' SGRADEVOLE SVEGLIARSI NEL MEZZO DI UN SOGNO

“Bello o brutto che sia… è sgradevole svegliarsi nel mezzo di un sogno”. Con questa frase affascinante, poetica anche se non intenzionalmente e soprattutto, dannatamente malinconica e disillusa, pronunciata da uno dei personaggi di fantasia che più mi è rimasto nel cuore da oltre un ventennio che, voglio esordire con questo post. Purtroppo in una simile circostanza dove nulla lasciava presagire la cosa, è davvero il caso di dirlo: Come un fulmine a ciel sereno, Kentaro Miura è venuto a mancare. So già che di primo acchito qualcuno potrebbe pensare: “ Chi diavolo è costui?”. Cercherò di darne una risposta pur essendo conscio di non esserne in grado o quantomeno di non rendere giustizia, a uno degli autori che hanno fatto la storia del suo medium: il fumetto. Miura era un mangaka, un fumettista giapponese per i profani, di quelli capaci di attirarti con il “colpo d’occhio” per la bellezza delle sue tavole, prima ancora delle sue storie. Non scherzo per niente quando dico che nel panorama mondiale del fumetto, probabilmente non è mai esistito nessuno che fosse in grado di disegnare come faceva lui. Ogni singola vignetta che componeva una delle sue tavole era ed è un piccolo quadro dettagliato, delle vere opere contemporanee di un autore sempre al passo con i tempi e in costante crescita, mettendo sempre al primo posto sia la qualità che la quantità. Una concreta voce fuori dal coro in quello che purtroppo è il panorama odierno del fumetto, dove frotte di autori si avvicinano a forme digitali per semplificare il lavoro e creare più roba da dare in pasto a editori e lettori nel minor tempo possibile, mentre Miura rimaneva ancorato alle tradizionali matite e chine per dare il giusto sapore tecnico e lento alla sua arte dettagliata in ogni sua minuzia. Fortunatamente e sfortunatamente questa prassi è continuata fino al 6 maggio, giorno della sua venuta a mancare (purtroppo solo nelle scorse ore ne è stato dichiarato il decesso, con tanto di funerale avvenuto in funzione privata) lasciando sbigottiti e atterriti non solo i fan di “Berserk”, l’opera alla quale lavorava da oltre un trentennio, ma il mondo del fumetto in generale, resi tutti quanti orfani di un finale che mettesse il punto sulla parola “capolavoro”. Perché Berserk nonostante negli anni abbia sofferto di una gestazione lentissima, specialmente negli ultimi dieci anni, (c’è chi dice per mancanza d’ispirazione dell’autore stesso, per pura pigrizia o per ribellione nei confronti di uno stile di vita pressante, la verità rimarrà per sempre nel mezzo) era e rimarrà un dannato capolavoro non solo del fumetto ma della letteratura in generale. Questo perché le atmosfere oniriche, cupe e crude dell’opera, intrise di quel romanticismo e nichilismo “insoliti” per un fumetto di stampo giapponese di fine anni ottanta, dove abbiamo un mondo medievale europeo realistico e al contempo fantastico, hanno influenzato pesantemente gli autori a venire e non solo quelli giapponesi. L’influenza di Berserk e di Miura sono presenti in tantissime opere visive e anche di successo, come possono essere i videogiochi di “From Software” nella serie dei “Soul’s” o in moltissimi progetti cinematografici indipendenti a sfondo medievale. Così come lo stesso Miura s’ispirò durante le fasi iniziali della sua storia, per quanto concerne il tratto, a tantissime altre opere della cultura pop e non, omaggiando autori del calibro di “Go Nagai” (Devilman e i vari robottoni come Mazinga) film di serie B come “Hellraiser” o “Excalibur”, arrivando addirittura a disegnare personaggi con le fattezze di attori come “Klaus Kinski” (Aguirre furore di Dio, Nosferatu il principe della notte) per darne una maggiore connotazione. Tutto ciò al servizio di una trama apparentemente banale ma che nel giro di soli tre numeri, si rivelerà essere ben congegnata e orchestrata, in grado di raggiungere più di un Climax in diverse occasioni e lasciando letteralmente a bocca aperta il lettore dallo stupore. Perché non è una cosa da tutti creare in giovanissima età dal nulla (Miura era poco meno che ventenne quando concepì Berserk), le gioie e i dolori di un personaggio incapace di trovare un senso nella propria vita se non attraverso l’utilizzo di una spada poco più grande di un essere umano, rendendolo vivo e sfacciato più di quanto non ci si potesse immaginare. Nonostante “Gatsu”, il protagonista di Berserk, non sia proprio una figura positiva, (potremmo definirlo una sorta di antieroe di una tragedia ben più grande di lui e del “libero arbitrio” stesso dell’essere umano) viene facile immedesimarsi nei suoi panni e tifare per lui. Così come è facile detestare seppur a volte con delle riserve Griffith, il coprotagonista della vicenda e l’altra faccia di una medaglia sporca di sangue che condivide con lo stesso Gatsu. Ma Berserk non è solo questo: è molto di più! Basta pensare che su questi due personaggi, moltissime persone hanno scritto tesi su tesi e saggi di ogni tipo, tenendo conto che entrambi non sono nemmeno la punta dell’Iceberg dell’opera. Un’opera che mi sento di consigliare a prescindere nonostante non avrà mai una conclusione e anche se dovesse averne una, senza la supervisione di Miura non sarà mai la stessa cosa. Non parlerò oltre di Berserk perché questo post non voleva e non vuole essere sul fumetto ma sulla mente che c’è stata dietro. Perché alla fine, è solo grazie a Kentaro Miura se oggi sono un appassionato di storie fantasy, della letteratura in generale e di tematiche molto più profonde, complesse e addirittura filosofiche. Opere che vanno oltre una superficie e che spingono costantemente alla riflessione, alla scoperta, la condivisione dei pensieri e anche ai loro eventuali contrasti senza una versione giusta o sbagliata. Una fuga dalla banalità, in cerca di qualcosa di diverso e forse di prezioso come potrebbe essere un “sogno”. E Kentaro Miura vent’anni fa… mi ha fatto prendere parte ad un sogno dal quale mi sono svegliato purtroppo a metà.









martedì 17 novembre 2020

IO SONO AVA di ERIN STEWART


“E’ impossibile non amare Ava e la sua voce piena di ironia e freschezza nel raccontare un percorso di sofferenza e rinascita senza indugiare mai nella retorica del dolore. Un libro che dovrebbe diventare d’obbligo nelle scuole!”. Furono queste parole di Alessia Gazzola, stimata autrice italiana (di cui tra l’altro sto leggendo il libro “Lena e la tempesta”, mentre sto scrivendo queste righe), che mi convinsero ad acquistare questo romanzo a scatola chiusa. Volevo provare sulla mia pelle quella freschezza e ironia che l’autrice italiana andava a decantare in quello che, in quel periodo, era per me un momento oscuro e triste della mia vita letterale che proprio in quei giorni, cercavo di riportare alla luce, leggendo “Septimus Heap”. Così come ho scoperto che la stessa Ava, protagonista del romanzo in questione stesse vivendo in quello che obiettivamente parlando, era un periodo molto più buio e difficile da superare di quello del sottoscritto e anche da nascondere, dalla cattiveria delle persone. Perché a soli quindici anni, in seguito ad un incidente domestico che sfociò in un incendio, portandole via entrambi i genitori e la cugina alla quale era molto legata, Ava perse anche la sua identità, trovandosi a indossare delle vesti inedite e scabrose sulla sua pelle in maniera indelebile. Delle cicatrici che da quel momento in poi l’avrebbero accompagnata per tutta la vita, ricordandole ogni qualvolta lei posasse il suo sguardo sul suo corpo martoriato e marchiato, momenti che non ci sarebbero più stati. Dopo un anno dal tragico evento, convinta dagli zii che rivedono in Ava una figura simile alla figlia perduta, dai dottori che la seguono e dalle persone del gruppo di sostegno al quale partecipa saltuariamente e svogliatamente, la ragazza tornerà sui banchi scolastici di un nuovo istituto, con l’obiettivo di reintegrarsi o quantomeno di provare a riprendere la sua vita dove l’aveva lasciata… per quanto questa non potrà mai essere come quella ormai perduta. Sarà l’incontro e il confronto con Pyper, una sua coetanea con cui instaurerà un rapporto di amicizia e solidarietà, ad aiutarla a trovare la forza di reagire e di lottare per reinserirsi nel mondo. Come Ava, anche Pyper è rimasta segnata da un incidente che la costringe a stare su una sedia a rotelle, e nonostante ciò, continua ad affrontare la vita con una certa spavalderia. Perché lei “ha sconfitto i suoi demoni e porta le sue cicatrici come ali”. Questo quantomeno è ciò che si evince dal testo del tatuaggio che Pyper porta sulla schiena, rappresentato da due grandi ali piumate del colore dell’arcobaleno sulle scapole mentre la scritta esposta poco sopra, parte dalla prima vertebra del collo fino ad arrivare ai due piccoli buchi all’altezza del bacino. Perché racconto questo? Perché durante la lettura del libro, bazzicando su internet in cerca d’altre informazioni come faccio sempre ogni qualvolta un’opera o un argomento m’interessa maggiormente, ho avuto modo di scoprire che il titolo originale dell’opera è “Scars Like Wings”, “Cicatrici come Ali”, tradotto letteralmente in italiano. Le stesse che porta tatuate sulla schiena Pyper e che in seguito erediterà anche Ava come segno evidente dell’evoluzione del suo percorso di recupero della libertà andata perduta. Generalmente evito di raccontare spoiler o elementi incisivi della trama di un libro o di un film che vengo a trattare qui sul blog ma, in questa circostanza non potevo fare altrimenti. Era per sottolineare ancora una volta, l’incapacità degli editori e traduttori italiani, di adattare o dare un titolo di spessore a un’opera, andandone a stravolgere il senso. Io sono Ava avrà sicuramente il suo impatto superficiale ma, Cicatrici come Ali lo reputo un titolo molto più evocativo e poetico di quello che la nostra edizione ha proposto, anche perché molto più coerente con l’opera. E poi questo romanzo è uno dei pochi casi in cui non è importante dove va a finire il viaggio, ma il percorso che ne segue. Posso affermare senza avere dubbi che, una volta conclusa la lettura, abbia provato un fortissimo dispiacere nel separarmi da Ava. E’ stato facilissimo provare empatia per questa ragazza e per le vicende che la vedevano coinvolta, per nulla melodrammatiche o pesanti ma solo ed esclusivamente vissute dal punto di vista di una sedicenne che in un modo autentico, espone il dramma che la affligge costantemente senza passare davvero per una vittima o facendo provare pena al lettore, mostrando fra un intoppo e l’altro il suo percorso alla riconquista della speranza. La Stewart è riuscita a creare un racconto veritiero grazie alle testimonianze di tutte quelle persone che, come Ava e Pyper, affrontano ogni giorno la loro nuova vita, con quella forza di volontà e di voglia di vivere nonostante i dubbi iniziali che, per noi che stiamo fortunatamente bene, non potremo mai capire appieno. Sono testimonianze essenziali e se da esse ne esce un prodotto del genere, non può che essere una cosa più che positiva. Come affermato dalla Gazzola, opere di questo stampo andrebbero fatte leggere nelle scuole, per sensibilizzare maggiormente i ragazzi, ai quali tra l’altro l’opera è indirizzata principalmente ma che può essere apprezzata tranquillamente anche da un adulto. Poiché sono trattati argomenti delicati come il bullismo e l’emarginazione, oltre che la perdita di qualcuno d’importante. Ho anche letto che l’opera è stata paragonata a “Wonder”, altro successo editoriale e cinematografico che trattava pressapoco un argomento simile… tuttavia, non avendo letto il libro e visto il film, non posso pronunciarmi. Sicuramente fra i libri che ho letto recentemente, è quello che mi sento di consigliare maggiormente.


giovedì 15 ottobre 2020

LE CRONACHE DEL MONDO EMERSO- LE STORIE PERDUTE di LICIA TROISI

Sono passati dieci anni da quando nell’ormai lontano ottobre 2010, cominciai la lettura delle “Cronache del Mondo Emerso” di “Licia Troisi”, sotto consiglio di un carissimo amico, finendo con l’innamorarmene. Forse ingenuamente perché col senno di poi, paragonando questa lettura a quelle che ho affrontato in seguito, fra classici del genere o produzioni più recenti scritte da persone molto più esperte, la prima opera della Troisi ne esce inevitabilmente sconfitta e con le ossa rotte. Grazie al cavolo aggiungerei. Tutto ciò era da condurre ovviamente alla poca esperienza, direi pressoché nulla, che l’autrice aveva a quei tempi. E nonostante ciò, Licia con le avventure di Nihal della valle del vento, la ragazza ultima superstite della stirpe di mezz’elfi e protagonista delle Cronache, riuscì a conquistare e a fare emozionare più di una generazione di lettori italiani in erba e non, divenendo a pieno diritto la regina del fantasy italiano, poiché fu una delle prime se non addirittura la prima a immergersi nel mercato letterale di quel genere, prima che ne divenisse una moda. Questo perché nonostante lo stile di scrittura fosse acerbo, nell’intera opera si trasudava molta passione e dedizione, voglia di raccontare, di condividere, d’immergere chiunque in un mondo tutto nuovo, con le sue stranezze e unicità, i suoi personaggi, le sue storie, la costante evasione dalla realtà. La crescita e l’evoluzione affrontando le proprie insicurezze e in un certo senso, l’esordio di Licia si potrebbe definire come il “viaggio terapeutico” di cui lei avesse bisogno. Lei stessa in più interviste non ha mai nascosto che Nihal fosse la rappresentazione esplicita di ciò che fosse ai tempi, con tutte le sue gioie, paure e insicurezze. Chiunque metta in gioco se stesso aprendosi, va sempre premiato per l’estremo coraggio di condivisione per quanto mi riguarda. Se poi lo fa creando il classico romanzo di formazione che io amo tanto beh, con me, si sfonda una porta aperta. Li ricordo con estremo piacere i giorni passati a leggere quel mattone, letteralmente parlando, durante il tragitto di andata e ritorno dal lavoro sull’autobus e in metropolitana. Un viaggio durato diversi mesi poiché mi presi i miei tempi e una volta conclusosi raggiungendone la meta, rimasi spiazzato, col nodo alla gola, solo e confuso con i miei pensieri. Mi ero così affezionato a Nihal e a tutti quei personaggi che la assistettero durante la sua crociata per salvare il Mondo Emerso dalla tirannia del Tiranno ( perdonatemi il gioco di parole ) e del suo esercito di Fammin che, una volta finita la lettura ne sentii inevitabilmente la mancanza. Ne volevo ancora! Dovevo sapere assolutamente come continuava nonostante l’opera si potesse definire più che completa. Fortunatamente quando mi avvicinai alla saga, nelle librerie era già disponibile da qualche tempo il suo seguito diretto, la trilogia delle “Guerre del Mondo Emerso” e sempre in quel periodo la “Mondadori”, casa editrice che si è sempre occupata di immettere sul mercato italiano le opere della Troisi fin dai tempi delle Cronache, pubblicò “Gli ultimi eroi” ovvero l’ultimo tassello della terza trilogia sul Mondo Emerso, le “Leggende”. “Meglio di così si muore” pensai… stoltamente. Questo perché nonostante gli evidenti miglioramenti di scrittura legati sempre di più all’esperienza accumulata, le Guerre non mi convinsero o meglio ancora, non mi conquistarono come mi sarei immaginato. Lo schema era pressappoco il medesimo di quello precedente con piccole variabili: C’era sempre una protagonista femminile con i suoi problemi seppur differenti rispetto all’eroina precedente, i personaggi comprimari la supportavano uniti tutti quanti contro una minaccia più grande, incarnata questa volta da una setta di assassini devoti al culto di una divinità maligna il cui interesse principale era ridare vita alla nemesi della saga precedente e riprendere il controllo e la distruzione del Mondo Emerso. Lo stesso Mondo Emerso seppur fosse passata una cinquantina d’anni dagli eventi del primo libro, non riportava cambiamenti essenziali e… basta, tutto qui! Non mi è rimasto particolarmente. La verità è che commisi l’errore di leggere le Guerre a ridosso delle Cronache, convinto di trovare gli stessi personaggi le cui vicende precedenti nel mio cuore, erano ancora vive e pulsanti. Ciò rese parecchio sofferta la lettura del romanzo, le cui uniche parti che secondo quelle che erano le mie esigenze all’epoca riuscirono a essere sufficientemente intriganti, riguardarono esclusivamente il reinserimento di Sennar, il mago storico compagno di Nihal, invecchiato e troppo stanco per continuare a lottare per un mondo in cui non credeva più. L’assenza della stessa Nihal contribuì a farmi detestare, ingiustamente, il romanzo perché il cambio generazionale ci stava tutto ma come dicevo, non era quello che volevo in quel momento. Affrontai l’intera lettura nelle settimane a seguire con estrema fatica e una volta concluso questo secondo viaggio nel Mondo Emerso, decisi di prendermi una pausa da quell’universo e a oggi le Leggende non le ho mai recuperate. Nel corso degli anni tuttavia mi è capitato di leggere altre opere della Troisi, come l’intera saga della “Ragazza drago”, serie per ragazzini prestatami gentilmente dallo stesso amico che mi consigliò a suo tempo le Cronache del mondo Emerso e il primo libro dei “Regni di Nashira”. Quest’ultimo acquistato alla sua uscita durante la presentazione dell’autrice alla Fnac di Milano quando ancora esisteva nel 2011, con tanto di dedica e autografo… dire che non mi piacque è davvero poco, mi fece cagare! Non a caso di quel romanzo non ricordo nulla di nulla. Ad ogni modo verranno il giorno e lo spazio giusto per parlare di questa saga, facendo i suoi seguiti parte dell’enorme pila di libri accumulati sulla mia scrivania nel corso degli anni cui devo ancora dare la giusta attenzione… forse. E fra questi libri accumulati, arriviamo finalmente a quello di cui volevo parlare in questo post, ovvero le “Cronache del Mondo emerso, le storie perdute”, comprato alla sua uscita nel 2014 e letto solo adesso, a distanza di dieci anni esatti dalle Cronache originali. Casualità. Il libro naturalmente fu frutto di un’esplicita operazione commerciale da parte dell’autrice e della Mondadori per festeggiare il decennale della saga ( questi dieci anni cominciano ad essere troppo ambigui ), nel tentativo di fare leva sulla nostalgia dei fan della saga e io da bravo coglione quale ero e quale sono tuttora, lo acquistai con la consapevolezza che questa volta avrei ritrovato la Nihal cui ero legato. Ed effettivamente è stato così, seppur con delle vesti differenti essendo in questo romanzo più matura e meno impulsiva rispetto alla trilogia originale, anche se ogni tanto la sua cocciutaggine riemerge nostalgicamente in tutti i sensi. Sarò franco, sconsiglio totalmente la lettura di questo libro non solo a chi non ha mai letto le Cronache del Mondo Emerso, ma anche le Guerre e le Leggende. Questo perché il libro si suddivide in tre atti, “canti” nello specifico essendo queste tre storie “perdute”, raccontate da un misterioso bardo in una locanda durante una serata nevosa. In realtà le prime due ai conoscitori della saga non sono propriamente una novità, essendo già state trattate nelle prime due trilogie in maniera superficiale o quantomeno abbozzate. Mentre l’ultima è inedita perché si svolge dopo le conclusioni delle vicende dell’ultima trilogia e, infatti, la maggior parte dei rimandi inizialmente non li colsi proprio perché le Leggende non le ho mai lette, spoilerandomele… maledetti bastardi! Non che me ne fregasse davvero qualcosa chiariamoci, però è il principio alla base ad essere sbagliato. Se tu mi vuoi vendere una storia dedicata alle “Cronache” come suggerisce il titolo di copertina, mi aspetto di trovare al massimo rimandi a quel romanzo e non anche agli altri! Detto ciò, il libro nell’insieme mi è piaciuto perché oltre ai riferimenti nostalgici, ai personaggi che tanto mi piacquero, primi su tutti Nihal e Sennar, il drago Oarf o le rappresentazioni giovanili e inesperte di Soana e Fen, i mentori dei due protagonisti, mi ha fatto piacere tornare in quell’universo ( seppur in piccola dose ) che una decina d’anni fa fece breccia nel mio cuoricino. Peccato solo che, l’esperimento nostalgia è mandato in vacca da un finale aperto che non ha senso di esistere in un extra bonus come questo romanzo, andando, di fatto, a finire l’epopea di Nihal, in un modo che ritengo non solo ignobile ma poco riuscito a differenza di quello che era il finale originale, molto più coerente seppur mega buonista. Peccato perché fino a poco prima delle ultime cinque pagine seppur con i suoi momenti altalenanti… ci stavo credendo, illudendomi di essere tornato indietro di dieci anni.


venerdì 25 settembre 2020

SEPTIMUS HEAP Volume 1 MAGYA di ANGIE SAGE

L'autunno fra le quattro stagioni è sempre stato la mia preferita in assoluto. Sarà perché sono nato in questo periodo dell'anno ormai trent'anni fa, sentendola più che affine a quelle che sono le mie "corde" personali. L'atmosfera stessa che si viene a creare, in netto contrasto con quella solare e calda estiva, in favore di una più spenta e tiepida. L'odore dell'erba bagnata accompagnata dalle foglie gialle e secche cadenti al parco col suono del vento malinconico a farne da tema, è una linfa vitale di peso per il mio estro creativo. Nel mio immaginario l'autunno è sempre stato associabile alla lettura in ogni sua forma. Quasi sicuramente perché la prima volta che presi in mano un libro con l'intenzione di leggerlo seriamente, fu un ottobre di più di venti anni fa. E nella fattispecie si trattava di un libro fantasy. Un genere letterario che col passare degli anni, continuo a ritenere essere quello che maggiormente preferisco in assoluto, insieme a questo periodo dell'anno. Forse perché mi permette di visitare ogni volta con l'immaginazione, mondi sempre più lontani da quello reale in cui viviamo, molto più drastico e irrecuperabile a dispetto di quelli che sono gli scenari inventati di sana pianta, in alcuni casi catastrofici e più sofferti di quello vero, ma mai invariabili. Anche l'elemento più piccolo può fare la differenza, cosa che qui nella realtà raggiunge connotazioni utopistiche. E la via di fuga a volte è necessaria, staccare la spina, possibilmente con una buona tazza di tisana calda, la fioca luce di una lampadina ad energia a costo zero e perché no, anche la comodità di un enorme cuscino su cui appoggiare la testa, per rendere più confortevole ed intima la lettura. Ed è con queste premesse che mi sono approcciato alla lettura di questo romanzo, mentre dalla finestra la prima pioggia autunnale scendeva lentamente, aiutandomi ad immergermi fin dal principio nel clima malinconico di un racconto che si apre nel modo più triste possibile. Ovvero con la morte prematura dell'ultimo figlio appena nato dei coniugi Sylas e Sarah Heap, maghi appartenenti all'ultima categoria di una società. Una società dove la magia è denominata nel mondo in cui vivono come "Magya", ( da qui il sottotitolo del primo libro ) un elemento ereditario appartenente a poche famiglie di cui l'esponente più dotato, se sotto la guida di un maestro col rango più alto di Magya denominato mago StraOrdinario, può assumerne l'eredità portando avanti la tradizione ciclicamente. E secondo una vecchia leggenda, il settimo figlio di un settimo figlio dotato di Magya, sarebbe in possesso del potere magyco più alto di sempre e dal destino incredibile. Tuttavia in questa storia il destino risulta essere beffardo poiché questa presunta figura è incarnata proprio dall'ultimo figlio degli Heap, Septimus, che con la sua morte prematura lascerà il vuoto all'interno della famiglia. Un vuoto che casualmente verrà colmato in parte lo stesso giorno con lo stranissimo ritrovamento nel bosco ad opera di Sylas, di una bambina ancora in fasce. Passeranno dieci anni da quell'avvenimento e il giorno del decimo compleanno della piccola Jenna, diventata a tutti gli effetti un membro della numerosa famiglia degli Heap, busserà prepotentemente alla porta il destino, dando così inizio ad una serie di eventi che andranno inevitabilmente ad intrecciare le vicende di più personaggi, compresi quelli più inaspettati. Sarò sincero, il libro non mi è piaciuto particolarmente. Non è brutto sia chiaro, è scorrevole, leggero, simpatico in alcuni frangenti, ispirato e narrato molto bene nonostante la storia di base non sia originalissima e riconducibile ad altre opere molto più conosciute, prima su tutte quella di Harry Potter, a cui questo libro porta diversi rimandi, come quello del bambino predestinato nonostante le premesse, il contesto e le condizioni siano differenti. Ma non per questo è privo di una sua identità. Solo che per quelli che sono i miei gusti strettamente personali, la lettura mi è risultata essere altalenante. Inizialmente ti coinvolge immergendoti in quelle che sono le sue atmosfere spiegandoti brevemente e in modo efficace quelle che sono le basi di quel mondo. Poi dopo una manciata di capitoli la storia scopre subito le sue carte decollando, come se fosse una fuoristrada e tu uno dei suoi passeggeri, senza darti però il modo d'indossare la cintura di sicurezza. Raggiungi a questo ritmo quasi duecento pagine di lettura in fretta e furia, come se stessi scappando da qualcosa o qualcuno. Tra l'altro è un curioso parallelismo con quello che succede in tutta quella prima parte, dove alcuni dei personaggi principali saranno costretti dagli eventi ad una fuga rocambolesca, raccontata minuziosamente in ogni dettaglio, anche quello più inutile. Non nascondo che mi sia piaciuta tantissima come cosa, mi ha fatto sentire coinvolto in modo più diretto. Poi però l'autrice, che in questo caso assume chiaramente il ruolo della persona alla guida del veicolo, decide di punto in bianco di rallentare la corsa premendo il freno a mano a tradimento e tu che sei sprovvisto della cintura di sicurezza, subisci il colpo sbalzando fuori dal veicolo. La botta è stata così forte che, se non sei abituato a simili sbalzi, difficilmente riesci a goderti il resto del viaggio con la nausea e il dolore in corso. E forse l'autrice stessa ne è consapevole, tanto è vero che tutta la parte centrale del romanzo è una lunghissima sosta, necessaria ai fini della storia per progredire ed evolversi ulteriormente. Ma tu continui a leggere con sofferenza perché ormai un certo pregiudizio si è instillato dentro di te impedendoti di goderti il resto della lettura/viaggio come dovrebbe essere, e non c'è nulla di più sbagliato di questo pensiero. Magari arrivi a destinazione e capisci di avere giudicato tutto male e di essere stato un cretino solo ad averlo pensato prima della sua conclusione... purtroppo non è stato il mio caso. Non mi è piaciuto affatto anche il trattamento "frettoloso" che ha riservato a parecchie delle sottotrame che nel corso della storia l'autrice è andata a scoprire, richiudendole alla fine superficialmente dopo che ad alcune di esse è andata addirittura a dedicare interi capitoli. Mi ha infastidito come cosa, perché dargli tutta questa importanza allora? Poi come se non bastasse quello che doveva essere il più grande colpo di scena dell'intera storia, si è rivelato essere "il segreto di Pulcinella". Gli elementi per capirlo l'autrice li aveva già messi sotto il naso del lettore nel corso della storia e in tempi poco sospetti, li rimarcava. Se leggi con attenzione è impossibile non arrivarci subito. Non dico di averlo capito fin dal principio però prima ancora di arrivare alla parte centrale del romanzo, sapevo già dove andasse a parare la cosa. In definitiva non credo che continuerò la lettura di questa saga. Dei sette volumi di cui è composta, solo quattro sono stati tradotti nel nostro paese dalla "Salani Editore", prima che la casa editrice decidesse d'interromperla definitivamente lasciandola incompleta. Suppongo sia successo per le scarse vendite ed interesse da parte dei lettori italiani, perché bazzicando qua e la su internet, oltre a non avere trovato molte informazioni in italiano sulla saga, ho scoperto che il quarto volume venne pubblicato nell'ormai lontano 2011, nove anni fa. Troppi per riprendere un franchise da dove è stato interrotto. Mentre per quanto riguarda i quattro già pubblicati, sono fuori catalogo ormai e reperibili solo usati su internet tramite qualche inserzione "Ebay" o su siti come quello del "Libraccio". La copia che possiedo è il fondo di magazzino che mi è stato regalato da un amico qualche tempo fa, se non fosse stato per lui difficilmente ne sarei entrato in possesso venendone a conoscenza. E comunque nonostante tutto, non posso fare a meno di ringraziare "Angie Sage". Perché nonostante non mi sia piaciuto particolarmente questo libro e mi abbia fatto, passatemi il termine, cagare, mi ha liberato da quel blocco che da tre/quattro anni a questa parte continuava ad attanagliarmi. Ovvero l'impossibilità di concludere una lettura e di riimmergermi dentro di essa con l'atmosfera autunnale che amo tanto, a farne da cornice.

sabato 27 gennaio 2018

LA LA LAND


Fra i buoni propositi che mi sono prefissato per il 2018 c'era quello di aggiornare mensilmente il blog, liberandolo così da quell'oblio che inevitabilmente ha finito col prendere il sopravento per colpa della mia inettitudine. Dovuta dalla scarsa concentrazione durante la lettura di un libro impedendomi di finirlo o di superare lo scoglio delle cento pagine, la superficialità durante la visione di un film che magari attendevo da parecchio tempo di vedere, zero interesse per quello che la quotidianità aveva da offrirmi non raccontando aneddoti interessanti ( anche se questi ammetto di non averli mai trattati qui sul blog ). I troppi pensieri per la testa e vita privata hanno finito per imporsi sopra i miei passatempi preferiti ( escluso quelli videoludici che sono in un modo o nell'altro riusciti quasi sempre a fungere da valvola di sfogo ). Insomma avevo perso l'entusiasmo. Entusiasmo ritrovato energicamente grazie alla pellicola di cui voglio parlare in questo specifico articolo, LA LA LAND. So di essere in ritardo di un annetto e passa ormai dalla sua uscita e da quando il titolo era praticamente sulla bocca di tutti, complice la pubblicità intorno al prodotto legata alla candidatura di quattordici premi oscar, di cui soltanto la metà è riuscita a portarsi a casa ( non roba di poco conto ) tra cui miglior colonna sonora e miglior attrice protagonista. Tuttavia solo in questi giorni ho avuto modo di vederlo seppur reticente inizialmente, quando se ne parla all'invero simile si finisce quasi sempre col avere pregiudizi sbagliati ma nemmeno poi così criticabili infondo ( dopotutto siamo tutte persone diverse ) Eppure quest'opera è riuscita a trasmettere in quel groviglio di pensieri incessanti e rombosi come una tempesta in piena nella mia zucca, un raggio di sole lucente e possente che percepisco tutt'ora mentre sto scrivendo con sottofondo il tema "Another Day of Sun" ( Un altro giorno di sole ) nella sua versione strumentale (https://www.youtube.com/watch?v=Qgx1FKus-6c ) proposta più e più volte nel corso del film e addirittura come canzone e balletto d'apertura.

Questo perché La La Land è un musical, genere atipico per i miei gusti personali che ad eccezione di "GREASE" ed "ACROSS THE UNIVERSE" non sono mai riuscito a tollerare, ritenendoli irritanti e fastidiosi. In La La Land la componente musicale non solo non è invasiva e massiccia, ma è studiata appositamente per essere integrata nel modo più spontaneo possibile rendendo digeribile il tutto agli  spettatori dell'ultima ora non avvezzi al genere, per intenderci i personaggi non cantano a cazzo ogni trenta secondi senza motivo, il sonoro è pregevole di ottima fattura tanto è vero che le versioni strumentali proposte nei momenti più concitanti del film non stonano affatto, ma anzi ne danno spessore aggiunto ( a chi non piace il jazz? ).

Mentre gli estimatori dei musical classici anni cinquanta e sessanta cui la pellicola omaggia palesemente non solo nell'esecuzione ma anche nella narrativa, si troveranno a casa. La ricerca e conquista del sogno americano è il tema portante della vicenda e come suggerisce la tagline del film, "Dedicato ai folli e ai sognatori", assisteremo i due protagonisti nel viaggio che li porterà a rincorrere il proprio obiettivo, fra sogni ad occhi aperti in netta contrapposizione con una realtà a volte non particolarmente entusiasmante. Durante questo lungo percorso, Sebastian ( Ryan Gosling ) e Mia ( Emma Stone ) si scontreranno prima per poi innamorarsi dopo, rendendo La La Land a tutti gli effetti anche una commedia romantica brillante con giusto un pizzico di drammaticità, rendendo la ricetta visiva perfetta ( questo secondo i miei gusti personali ovviamente ).
Tutto ciò traspare grazie alle prove "attoriali e non" che la coppia Gosling/Stone hanno saputo imprimere nel film. Raramente ho avuto modo di assistere sullo schermo ad un affiatamento sincero e sincronizzato come quello che questi due straordinari attori hanno saputo portare( non è un caso se entrambi sono stati candidati agli oscar come miglior attore/attrice protagonista, aggiudicandosi poi soltanto lei la statuetta d'oro dell'accademy ) sotto la direzione fresca, dinamica ed intraprendente di un semisconosciuto ( siamo seri chi cazzo lo conosceva prima di questo film?! ) "Damien Chazelle", vincendo anch'esso il premio oscar nella categoria miglior regista. Credo che rimarrà nella storia del cinema da qui a questa parte la scena di "A lovely night" ( https://www.youtube.com/watch?v=waTDxRZ93Qccon ) con il suo lungo piano sequenza che mette in scena la performance prima canora e poi acrobatica dei due attori, proponendoci quella alchimia e affiatamento di cui parlavo, accompagnato dall'ottima fotografia che risalta i colori  mandandomi letteralmente in brodo di giuggiole! Insomma un vero inno alla libertà espressiva e all'arte stessa, sublime e magnifico come quelli di "VanityFair" hanno voluto definire la pellicola.
Concludo qui perché mi risulterebbe difficile continuare a parlarne senza entrare maggiormente nei dettagli, e per chi non ha avuto modo di vedere La la land... che diavolo aspetti?!


giovedì 27 aprile 2017

A SPASSO CON BOB, IL MONDO SECONDO BOB, UN DONO SPECIALE DI NOME BOB di JAMES BOWEN

E' passato davvero parecchio tempo dall'ultima volta che ho aggiornato il blog, entrando nello specifico più di due anni essendo l'ultimo post datato Natale 2014... il tempo vola. L'inattività non è stata dettata da pigrizia, mancanza d'interesse o chissà cos'altro, semplicemente non ho avuto le giuste occasioni di leggere o guardare qualcosa di specifico che mi desse il giusto input per parlarne, e nel mentre sopra la mia scrivania si è accumulata una vasta pila di libri, tutti diversi fra loro per tematiche e forma, creando su di essa una vera e propria fortezza cartacea ( nulla vieta che li tratterò tutti sul blog chi prima e chi dopo, una volta letti ovviamente ). La voglia di tornare ad aggiornare il blog era forte, tanto è vero che già dallo scorso novembre, quando ebbi modo di leggere il primo romanzo di quella che io chiamo "La saga del gatto di strada Bob", vale a dire "A spasso con Bob" sentivo l'ardente desiderio di parlarne. In quella settimana specifica ebbi modo di vedere al cinema l'omonimo film tratto appunto dal suddetto romanzo, in una versione molto più romanzata e adattata per il circuito cinematografico senza stravolgerne l'essenza. Quindi decisi di posticipare l'articolo sulle mie impressioni per farne un confronto... e ho tardato anche troppo! Un lunghissimo viaggio durato ben sei mesi in cui ebbi modo di rileggere il primo romanzo e catapultarmi di seguito nei due successivi molto molto lentamente, essendo tutti e tre scorrevoli e non particolarmente longevi, l'ultimo su tutti, avrei finito col divorarli in una settimana e non sarebbe stata la stessa cosa, perché ai due protagonisti di questa bellissima "fiaba reale", James e Bob, sono sinceramente affezionato.

Non li conosco e quasi sicuramente non li incontrerò mai, tuttavia è come se avessi vissuto le loro avventure/disavventure direttamente con loro essendo i libri scritti dallo stesso James e di conseguenza autobiografici. Senza fare troppi giri di parole, codesti scritti fanno parte di quella categoria di prodotti puramente commerciali, giusto quel che serve per battere cassa e spillare facilmente denaro alle persone. C'è però da dire che in questo caso specifico il prodotto ha senso di esistere e l'acquisto vale la pena di essere effettuato. Perché sono la testimonianza vivente di un essere umano, tutto tranne che unico, un tipo come ce ne possono essere a bizzeffe senza particolari doti pur essendo musicista di strada, con le sue difficoltà, problemi e tanta voglia di riscatto per lasciarsi alle spalle il passato burrascoso cui inevitabilmente andò incontro per colpa di una infanzia tutto tranne che felice e una serie di sfortunati eventi che lo condussero su quel cammino. Una vita vissuta all'insegna della droga, dei furti e della povertà, portandolo a lottare costantemente contro la società che lo rifiuta automaticamente essendo etichettato come un parassita e  nullità. James non ci sta, vuole vivere come una persona qualunque, essere considerato umano alla stregua degli altri e uscire dalla merda in cui per troppo tempo a finito per sguazzare. Con tanta determinazione riuscirà nell'intento e ad aiutarlo ci penserà il gatto Bob, chiamato così in onore di "Killer Bob", il vero antagonista ed entità malefica della serie di culto degli anni novanta "Twin Peaks" creata da "David Lynch" di cui James era fan. Con la differenza che questo Bob è l'esatto opposto di quello del telefilm. Un angelo custode piovuto dal cielo e reincarnato nel corpo a quattro zampe del piccolo "pel di carota", il nomignolo affettuoso con cui James è solito chiamare il suo piccolo amico per tutto l'arco narrativo dei tre romanzi. Perché nonostante per lo stato e la legge ne sia effettivamente il proprietario, avendogli fatto installare pure il chip di riconoscimento e proprietà, James non si considera assolutamente il suo proprietario, ma l'amico umano su cui Bob può contare finché avrà voglia di stare al suo fianco. Un legame così sincero e profondo che entrambi per l'altro si possono considerare rispettivamente padre e figlio e viceversa a seconda delle situazioni, James si occupa di Bob e Bob si occupa di James. "Non puoi scegliere un gatto, è il gatto a scegliere te" così cita una delle tante frasi di apertura del secondo romanzo, " Il mondo secondo Bob" e Bob scelse James.

Detto così tutto ciò di cui ho parlato finora potrebbe sembrare finto, come una fiaba con tanto di lieto fine, ma è la realtà. Questa sa essere davvero essere straordinaria quando meno te lo aspetti, e puoi venirne a conoscenza se non direttamente tramite testimonianze come quella raccontata finora, trovando una sua forte componente poetica che mi ha fatto amare questa trilogia. Attraverso gli aneddoti delle loro avventure/disavventure così realistiche che tutti noi potremmo viverle tranquillamente. La cosa che adoro maggiormente è il fatto che il protagonista vero e assoluto alla fine non è tanto il gatto, il motivo principale per cui andai in origine a comprare il libro amando gli animali in generale, ma più un co-protagonista e spalla del vero protagonista, l'autore stesso col suo progredire lento e spontaneo pieno di grinta, portando avanti la classica tematica del romanzo di formazione a me tanto caro. Tutto narrato dal suo punto di vista ( anche perché se non lo fosse stato non si sarebbe mai potuto definire autobiografico ) il suo interagire con gli innumerevoli personaggi secondari che affollano le sue giornate, i luoghi che frequenta insieme a Bob primi su tutti "Covent Garden" e "James Street", veri co-protagonisti passivi dell'opera che fanno da scenario alle avventure dei due amici dove James è solito esibirsi con la chitarra e il piccolo pel di carota a fargli da spalla/mascotte attirando i passanti, descritti in maniera semplice ma efficace dandoti l'illusione di esserci sempre stato anche se non è vero. Lettura consigliata a tutte le età, semplice e mai banale dal mio punto di vista, un vero spaccato della Londra moderna e della società. Un dietro le quinte anche della stesura stessa del primo romanzo, raccontato come una delle svolte più significative effettuate dal protagonista nel secondo libro, nel primo la disintossicazione definitiva dalla droga e dal metadone. Il terzo sicuramente fra i tre è quello molto più commerciale per vendere durante il periodo natalizio essendo alla fine un racconto sul Natale che i due vissero nel 2010, ma non per questo brutto e privo di una morale, anzi spero gli facciano scrivere un quarto libro perché come detto prima mi sono sinceramente affezionato ai due personaggi. Tutti e tre i libri sono editi dalla "Sperling & Kapfer". Il film invece? Carino ma dovendo scegliere preferisco i tre libri. Piccola chicca finale? Il gatto nel film è interpretato dal vero Bob e James fa un brevissimo cameo verso la fine.







giovedì 25 dicembre 2014

EDWARD MANI DI FORBICE


Siccome è davvero parecchio che non aggiorno il blog, ( quattro mesi e tredici giorni entrando nello specifico ) ed essendo oggi il giorno di Natale, colgo la palla al balzo per pubblicare dopo tempo qualcosa di nuovo. Non mi occuperò di fare riflessioni sulla festività stessa, sul senso della vita, sulla gioia, la famiglia ed il rapporto che ne scaturisce nelle feste, e tutte quelle cose li come feci l'anno ormai passato ( sti cazzi aggiungerei... ). Dirò giusto le mie tre ( si fa per dire ) considerazioni su quello che a mio modesto parere sia, "Il Film" di Natale per eccellenza. Già da quest'ultima affermazione si può intuire quanto io adori questa pellicola. Dire che la amo è davvero poco. La "vivo" ogni volta che la ammiro in tutte le sue sfaccettature. La storia del ragazzo dalle mani di forbici, che venne da un mondo fantastico, ( un castello in questo caso ) sperando forse di inserirsi fra la gente e vivere come uno di loro, per poi venire ricacciato perché "diverso" la porterò sempre nel mio cuore come bagaglio anche "culturale" oltre che personale. Ogni singolo fotogramma mi incatena a se trascinandomi nella visione completa, impedendomi di continuare quello che stavo facendo li per li. E non importa se siamo all'inizio, a metà o alla fine, è certo che una volta che il mio sguardo si incrocia con lo schermo del televisore, non posso più staccarmene fino alla fine. ( vabbè a parte quando danno la pubblicità naturalmente ). E' una "fiaba" che prende vita! Alcuni miei amici potrebbero confermare tranquillamente quanto ciò dico perché, manco a farlo apposta il film lo hanno trasmesso la sera del 23 dicembre su Mtv ( il canale della musica che di musica non ha più nulla ) obbligandomi a rivederlo tutto, nonostante fossi ospite a casa di queste persone per godermi una cenetta intima prenatalizia. Fortunatamente me lo hanno fatto vedere tutto ( manco fossi stato un bambino XD ) e per di più si sono aggiunti pure loro alla visione di questo piccolo capolavoro pur di non lasciarmi solo, ( ahhh il potere dello spirito natalizio :3 )


In realtà qualcuno ha avuto da ridere più volte sulla visione, ( ciao Gloria, Chiara e Nicolas ) definendola angosciante. Questo perché effettivamente la storia di Edward ( interpretato da Johnny Depp all'epoca agli esordi che con questo film, sancì quella che tutt'oggi si può definire una proficua collaborazione con Burton ) e delle sue "strambe" mani, è una di quelle storie che ti trafiggono dritte al cuore, anche a tradimento nonostante alcuni sviluppi siano praticamente annunciati durante lo svolgersi dei fatti. Il tema della diversità e dell'emarginazione che comporta inevitabilmente alla solitudine, sono argomenti trattati più e più volte. Ma come Burton, nessuno è in grado di fare. I suoi film ed in particolare questo, sono sempre critiche rivolte alla società contemporanea. Una società all'apparenza perbenista eccessivamente da risultare fastidiosa nei confronti di chi è "diverso"( in questo caso il nostro protagonista ), per poi gettare la maschera mostrandoci il vero volto, infame e cinico pronto a giudicare senza prima tenere conto di se. Un esempio eclatante può essere quello del vecchio con la gamba finta che dirà testualmente le seguenti parole ad Edward, "Non lasciare mai che qualcuno ti dica che sei un handicappato" per poi più avanti affermare al fratellino della protagonista femminile "Allora lo hanno preso? Parlo dello storpio"... no comment davvero.
Non a caso il regista, ci mostra il paese dove si svolgono le avventure del nostro "Mostro di Frankenstein", come un insieme di ville a schiera dai colori a pastello che ricordano le case in polistirolo delle bambole di porcellana, il cui contenuto per quanto possa essere ornato è privo di anima, come i popolani stessi.

Mentre il mondo da cui proviene Edward, il castello isolato sulla collina, circondato dal grande giardino costituito da tutte le sculture di erba, è l'esatto opposto. E' VIVO! Ciò è dovuto dall'immaginazione e dalla voglia di sognare ingenua e genuina del protagonista. Quella voglia di esprimere e condividere tutto ciò che percepisce del nostro mondo. L'aspetto inquietante, grottesco accompagnato dallo sguardo eternamente malinconico, fanno di lui un'artista incompreso. Addirittura sommergerà di neve l'intero paese "dipingendolo con le sue mani" dandogli forse un'anima. Come dirà testualmente verso la fine del film Kim ( interpretata da Winona Ryder, in una delle sue interpretazioni più riuscite... secondo me ) la ragazza di cui Edward si innamorerà, " Prima che lui venisse in questa città la neve non era mai caduta, ma dopo il suo arrivo è caduta".

Quel che apprezzo di questo film è anche il comparto romantico. Vero e spontaneo, per nulla forzato, nessuna smanceria o parole frivole da baci perugina. Semplici sguardi, poche parole accompagnate da immagini che valgono più di un romanzo di trecento pagine che spiega l'argomento stesso. E' impossibile secondo me non rimanere coinvolti da questo amore amaro, poetico, malinconico e puro ( per Edward, Kim rappresenta la purezza come quella che si identificano negli angeli ). Tutte le scene che li coinvolgono sono le mie preferite del film, in particolare due. Quella della danza di Kim sotto la neve ( https://www.youtube.com/watch?v=qmOScCWGKOo ) è qualcosa di totale! Mentre si raggiunge la perfezione ( uno dei pochi casi in cui uso questo termine perché la perfezione difficilmente esiste per me, non esistendo effettivamente ) nella scena dell'abbraccio ( https://www.youtube.com/watch?v=5NwQvmuen08 a partire dal minuto 0.40 ). Gli occhi lucidi e le lacrime sono inevitabili... certo se si possiede un cuore di pietra difficilmente accadrebbe XD.
Il comparto sonoro ad opera di "Danny Elfman" è roba da farti venire la pelle d'oca. Da sempre collaboratore di Burton, in questa pellicola dette il meglio di se, creando uno di quei temi immortali ( https://www.youtube.com/watch?v=7Uil_moZTQk ) che tutt'oggi vengono abusati perfino nelle pubblicità ( come quelle degli indumenti intimi o dei profumi ).

Nel cast oltre ai già citati Depp e Ryder figuravano Dianne West e Alan Arkin ( la prima fu una delle muse di Woody Allen con la quale girò alcuni dei suoi film divenuti dei veri cult, il secondo  il nonno di Little Miss Sunshine ) nei ruoli dei genitori di Kim, Anthony Michael Hall ( uno dei due ragazzi imbranati protagonisti del film cult "La bionda esplosiva" ) nella parte di Jim l'ex ragazzo di Kim e Vincent Price ( chi è amante dei film horror di una volta e del videoclip "Thriller" di Michael Jackson sa di chi sto parlando, una vera leggenda! )  nel ruolo dell'inventore che darà vita ad Edward.
La domanda che può sorgere spontanea arrivati a questo punto è, cosa c'entra questo film col natale? Nulla effettivamente! Per tutta la pellicola non si manifesta l'atmosfera natalizia se non negli ultimi venti minuti, ma ha un ruolo totalmente secondario. Eppure lo reputo un film natalizio proprio perché seppur in modo passivo, appartiene a quel periodo. Non ha alcun interesse a mostrare il lato gioioso della stessa festività, i buoni sentimenti e tutte quelle cose che all'inizio della mia recensione personale ho voluto omettere. Perché il natale alla fine è come "un giorno qualunque". Ci sono si i momenti positivi e felici, ma anche i momenti bui e tristi. E questo film ne è l'esponente più diretto. A natale si è più buoni si dice, ma la realtà purtroppo è tutta altra cosa, se sei un barbone, uno storpio, una persona incapace di volere ed intendere, sei un emarginato e quindi vieni lasciato a te stesso, natale o non natale. Ed Edward è uno di quei personaggi che purtroppo ne sa qualcosa perché ritenuto diverso... Buon Natale a tutti!